mercoledì 16 agosto 2017

GIOVANNI FALCONE E ANTONINO (Ninni) CASSARA'

(da “Storia di Giovanni Falcone” di Francesco La Licata, pagg. 81-82)

Una cosa va detta, a onore della verità: il maxiprocesso non sarebbe stato possibile senza l’iniziale, determinante apporto di Ninni Cassarà. E questo in più di una occasione è stato riconosciuto anche da Giovanni Falcone. Fu Cassarà che si invento un’inchiesta impossibile. Fu lui che convinse più di un mafioso a parlare. Non era epoca di pentiti (siamo all’inizio dell’82) e così il commissario non aveva altra strada che quella della “via confidenziale”.
Con lui si confidò Mariella Corleo, moglie di quel Lo Presti di cui abbiamo già parlato, offrendo un primo appiglio per poter inquadrare nel mirino i potenti Ignazio e Nino Salvo, esattori di Salemi. E anche Salvatore Contorno parlò: non firmò alcun verbale perche non poteva. Cassarà gli concesse l’anonimato e la latitanza, nel rapporto profeticamente “Fonte prima luce”. L’inchiesta era quella dei “162”, ovvero “Greco Michele + 161”.

C’era il racconto di tutta la guerra di mafia, dell’ascesa dei Corleonesi, la dittatura di Toto Riina, la sua strategia sanguinaria. Ninni Cassarà fece parlare i cosiddetti “perdenti”. Quante notti il commissario trascorse a battere in lungo e in largo la città nel difficile compito di individuare i covi dei latitanti che le sue “fonti” gli confidavano. Alla fine fece un quadro inedito della mafia, definì i nuovi organigrammi, spiego origini e cause della guerra tra le cosche. Il rapporto dei “162” piacque a Dalla Chiesa, tanto che, appena insediato, se ne appropriò. Era convinto che con quello si potesse preparare la prima vera risposta dello stato all’assalto delle “famiglie”.
Falcone ne ricavò la cellula primitiva che avrebbe dato luogo al maxiprocesso. Anche l’inchiesta di Cassarà, infatti, partiva da una premessa indispensabile: che Cosa Nostra fosse un’organizzazione unitaria e segreta e che gli avvenimenti che ne segnavano la vita, apparentemente slegati, non fossero indipendenti l’uno dall’altro ma connessi e rispondenti a una strategia unica. I due si trovarono d’accordo.
Si erano conosciuti a Trapani, Ninni e Giovanni. Il poliziotto, più giovane di otto anni, palermitano anch’egli, aveva diretto quella squadra mobile. Neanche a lui piaceva l’andazzo del quieto vivere, e non lo nascondeva. Tutti sapevano, per esempio, che al “Circolo della Concordia” di Trapani, fra gli affezionati dei tavoli verdi, c’era mezza “città dei potenti”. Ebbene, Ninni ci andò ugualmente, con gli agenti in divisa, anche contro le direttive superiori. Non risparmio neppure alle signore ingioiellate - intollerabile insubordinazione - una lunga sosta negli uffici della squadra mobile. Il trasferimento fu una cosa quasi consequenziale.
Arrivò a Palermo e rivide Giovanni che, stanco del Palazzo di Giustizia di Trapani e dei processi civili, lo aveva preceduto di qualche mese. Neppure nella “capitale della mafia” il poliziotto volle imparare l’arte della riflessione. Cosi non esitò ad andare a Caltanissetta, al processo per la strage Chinnici, per informare la Corte d’Assise che “il Consigliere”, prima di saltare in aria con la bomba, aveva anticipato che voleva arrestare Nino Salvo”. Sicuro? «Certamente, me lo riferirono i giudici Vincenzo Geraci e Alberto Di Pisa». Confermano lor signori? Il primo smenti categoricamente, l’altro si aggrovigliò in un giro di parole.


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